CINEMA TEATRO ITALIA
racconti di esperienze d'arte dal pianeta Italia
a cura di Elena Bucci
Una riflessione sull’incontro con Elena di Marco Montanari e Silvia Rossetti Siamo una generazione a cui nessuno ha mai vietato di sognare. Ci è stato, tuttavia, caldamente sconsigliato. Siamo una generazione accusata di aver perso il contatto con la realtà e le persone, mentre starci e sentirci vicini è lo scopo di ogni giornata che viviamo. Siamo una generazione che ha sentito ripetersi innumerevoli volte che il proprio paese è in crisi, da quando era troppo giovane per capire cosa significasse, ma abbastanza grande per avere paura, e chiederselo. Siamo una generazione che ha imparato a sentirsi a casa ovunque, in ogni angolo del mondo, in ogni città dell’Italia, in ogni luogo in cui non fosse costretta a sentirsi sola. Siamo una generazione che alza le mani appena sente qualcosa agitarsi, non per attaccare, ma per evitare di prendersi pugni in faccia. Siamo una generazione che cerca instancabilmente se stessa negli altri, perché qualcuno le confermi che no, non serve cambiare per diventare adulti. Adesso siamo una generazione che, come le altre, guarda il mondo fuori da dietro un vetro. Il fantasma del digitale tanto demonizzato, in questo mondo al contrario è diventato l’unico canale attraverso cui possiamo ritrovare calore negli altri, attraverso cui possiamo sentire di “fare”. Come mai abbiamo smesso di credere, sappiamo bene che il teatro è una creatura che ha tanti visi e tante forme. Il teatro è fatto di corpo e di contatto, ma anche di mente e di emozione: almeno queste, ci siamo detti, non lasciamole morire. All’inizio, non sapevamo se ci saremmo riusciti. Non sapevamo se i ragazzi sarebbero stati dalla nostra parte, in quest’ennesima battaglia in cui abbiamo chiesto il loro aiuto. Noi, convinti di essere quelli che trascinano, ci siamo resi nuovamente conto di come, senza di loro, non possiamo andare da nessuna parte. E loro, come sempre, non ci hanno deluso. Ci sono stati, i ragazzi. Gli stessi che non hanno voglia di fare nulla, che stanno sempre al telefono, che sono egomaniaci, che pensano solo a farsi i selfie, che sono superficiali. È con loro che siamo quasi tutte le sere della settimana, a parlare, a giocare d’improvvisazione, a guardare e commentare spettacoli insieme, ad ascoltarci e parlarci, con i faccini sgranati sullo schermo. Hanno un modo tutto loro di renderti orgoglioso e gratificato. Abbiamo ritrovato l’energia e la passione, in un certo senso, in ciò che prima non avevamo tempo di fare. Queste settimane sarebbero state tese, saremmo stati occupati con i preparativi degli spettacoli di fine anno, a dare “cicchetti” a chi si dimentica le battute, a chi non si presenta puntuale, uniti dalla dinamitica attesa di andare in scena. Un’attesa che è svanita, piano piano. A forza di rimandare date ipotetiche, abbiamo perso la voglia di pensarci, alle date. E allora è sorto il dubbio, una selezione naturale o, più che altro, teatrale. Li avremmo persi per strada, ora che non c’era più uno spettacolo a cui prepararsi? Ora che il laboratorio di teatro non era più un’occasione di uscire di casa o un’attività curriculare che i genitori – Dio ce ne scampi – li obbligavano a fare? Hanno un modo tutto loro di renderti orgoglioso, dimostrandoti che sei pure un po’ stupido. Ci hanno dato prova che il teatro che sentono è qualcosa che va oltre, è una chiamata a cui non possono rinunciare, una sete che non si esaurisce. Abbiamo scelto di coinvolgere, con degli incontri online, dei professionisti del teatro e dello spettacolo. Abbiamo aperto un dialogo che normalmente non si sarebbe verificato, oppure si sarebbe verificato in maniera profondamente diversa. L’obiettivo è offrire loro le risposte alle domande che hanno dentro, i dubbi che li aiutano a capire chi vogliono diventare. L’obiettivo è anche dimostrare loro che avere fiducia non è da ingenui o da ignoranti, come il mondo ha cercato di fargli entrare in testa. Perché non è troppo tardi, non lo è mai, né per loro né per nessuno. L’incontro con Elena Bucci ha sortito esattamente quel risultato. Ascoltando le sue storie, le sue suggestioni, la sua esperienza hanno ricevuto non solo le risposte alle proprie domande, ma le risposte che volevano sentire. È scattato qualcosa, nonostante i filtri, nonostante gli schermi: nella necessità disperata di sentirsi tutti vicini ci siamo trovati tutti tesi nella stessa direzione, tutti accomunati dalla stessa idea di speranza e di teatro. Se lo spazio non è quello del teatro anche il tempo è stato modificato, in una sorta di limbo tra domande e risposte, ha portato via due ore mezza senza che ce ne accorgessimo. Dopo i primi momenti di sorrisi e attese che tutti arrivassero, i rumori si sono attutiti e ci siamo ritrovati vicinissimi, uniti in una grande sala, grandissima. Una grande regione nella quale poter parlare liberamente di teatro, che ci unisce, in maniera diversa, ma che è la stessa lingua che noi e Elena parliamo e comprendiamo bene. E allora non importa che ciascuno sia nella sua camera o nel suo studio, siamo assieme, siamo nella stessa dimensione. Sogniamo questo spazio in cui esprimerci, in cui imparare, in cui domandare e interrogarci assieme, ciascuno con le sue potenzialità, esperienze e sogni. Ora non siamo assieme fisicamente, ma partiamo da qui perché… Perché noi siamo una generazione che sogna con coscienza, che impara in fretta, che fa progetti e che crede nel futuro, nel nostro teatro. Un teatro che resiste, cambia, sopravvive, vince. I commenti sono chiusi.
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