CINEMA TEATRO ITALIA
racconti di esperienze d'arte dal pianeta Italia
a cura di Elena Bucci
Fiabe della tradizione italiana scelte e tradotte da Nadia Malverti La storia della raccolta di fiabe “Si conta e si racconta” è un archivio vivo dentro un archivio vivo dentro un archivio vivo. Una nostra geniale compagna della Scuola di teatro di Bologna, Nadia Malverti, che ora vive in Germania, un bel giorno telefonò a diversi di quei ragazzi, ormai diventati più che adulti e per fortuna tutti al lavoro, per convocarli a Bologna perché registrassero alcune favole della tradizione riviste con la freschezza del suo sguardo intelligente, di una lettura sincera, di interventi musicali di qualità. Ci siamo ritrovati tutti nello studio bolognese dell’amico Roberto Passuti e abbiamo vissuto giorni intensi ed emozionanti. Eravamo gli stessi, ma diversi, eppure ci comprendevamo a meraviglia. Le registrazioni riuscivano bene quasi subito, con poche difficoltà, naturali, come se aspettassero di essere svegliate dal sonno e riportate all’orecchio dei bambini. Tutti noi ricordavamo le favole raccontate dai dischi della nostra infanzia, quando i nonni cominciarono ad essere sostituiti dalle tecnologie. Ci siamo sentiti quindi felici di restituire ai bambini di oggi e di domani l’emozione di un ascolto senza immagini per amplificare l’immaginazione, di favole radicate in questa particolare terra, l’Italia, ma venute da chissà dove e chissà quando. Le mie nipoti e molti figli di amici sono cresciute ascoltando quelle fiabe. Alcune, per gentilezza di Nadia, vengono ora pubblicate qui. Grazie Nadia, grazie a tutti quelli che c’erano. (Elena Bucci) Nadia fa parte di quella misteriosa categoria di persone che - anche a distanza di anni di reciproci silenzi e involontari distacchi - continuano a conservare intatto il loro posticino ostinato nel mio universo emotivo. Un po’ come certi compagni di scuola: sono lì, ormai distanti e persi nel loro mondo che non ha più contatti con il mio, ma ai quali pensiero e sentimento tornano con lo stesso limpido affetto di quel tempo perduto. E in effetti l’incontro con lei risale a quel momento di passaggio delle nostre vite dall’età postadolescenziale a quella adulta in cui accadono eventi che segnano: l’abbandono della casa paterna per la prima esperienza di abitazione autonoma condivisa con altri coetanei in corsa verso la scoperta del proprio divenire ‘adulti’, il tempo della costruzione non sempre ancora consapevole del proprio destino, il distacco da un Sud che mi pesava allora tanto quanto mi manca ora, l’avventura della nuova vita a Bologna. Siamo stati compagni di corso alla Scuola di Teatro di Bologna diretta da Alessandra Galante Garrone, entrambi promettenti talenti di una classe ricca di spiccate personalità ma non priva di sottili veleni interni, lei meritevole e consapevole ma per nulla spocchiosa ‘primina della classe’, io un po' più in bilico in quanto apprezzato da diversi docenti ma vagamente inviso alla Direttrice, senza per altro che questa palese differenza di considerazione interna avesse alcuna incidenza su stima e simpatia reciproche; anzi potrei senz’altro affermare che con lei, più che con altri, si era stabilita una tacita e complice alleanza. Non è quindi un caso se - in occasione degli esami di passaggio dal primo al secondo anno della Scuola che ebbero anche il prezioso merito di farmi conoscere Elena - io abbia pensato di rivolgermi a lei per uno sguardo alla prova di ‘improvvisazione’ che, assieme ad un monologo tratto da un testo teatrale a nostra libera scelta, avrebbe concorso alla valutazione del corpo docente per decidere la rosa dei ‘promossi’ e il secchio dei ‘bocciati’. E si trattava di prova ahimè molto importante, in quanto materia di docenza della stessa Alessandra, la quale concedeva pochi sconti ed esigeva brillanti riuscite, preferibilmente comiche e di scarsa favella: materia vischiosa nella quale la mia sicurezza e la mia autostima erano praticamente pari a zerovirgolauno! Come se non bastasse, l’argomento su cui produrre l’improvvisazione per l’esame di settembre era “Le mie vacanze”, titolo che trovavo talmente insulso, poco stimolante e deprimente da condurmi all’irresponsabile scelta di ignorare completamente il compito fino a pochi giorni prima del fatidico esame, dedicandomi invece con ampio dispendio di passione alla preparazione del monologo, scovato nel Woyzeck di Georg Buchner, testo che già allora mi aveva folgorato per la sua nettezza ed essenzialità poetica. Con la faticosa sensazione di essere gravato da un insopportabile fardello sulle spalle, affrontai il dilemma di cosa inventare per l’improvvisazione e alla fine mi convinsi malauguratamente che poteva essere un’idea originale immaginare una vacanza… sulla luna! Inconsciamente ‘sentivo’ con chiarezza di essere sull’orlo di un baratro e quindi chiesi a Nadia se voleva dare uno sguardo all’improvvisazione e magari qualche consiglio, lei così ferrata su quel terreno che per me era tanto sdrucciolevole. Non dimenticherò mai l’espressione dello sguardo sgomento di quei suoi splendidi occhioni nocciola alla fine della mia ‘prova’: un misto di affetto impotente e di involontario stupore. Deglutì un attimo e poi mi disse: “Ti boccia!”. Balbettai: “Magari ci lavoro un po’… se mi dici qualcosa…”. Lei scosse il capo, veramente dispiaciuta. Disse: “Non funziona, non c’è niente da fare. Ti boccia!”. La ringraziai, la liberai dall’imbarazzo di assistere alla mia debacle emotiva e rimasi chiuso fino all’alba nella sala della Scuola in via d’Azeglio, che allora era per noi l’universo e che quando rividi anni dopo mi sembrò poco più ampia del soggiorno di casa. Consapevole che il suo responso corrispondeva pienamente alla realtà di come si sarebbero svolte le cose il giorno dopo, la forza della disperazione mi diede il coraggio di buttare via il pessimo lavoro già fatto e di contravvenire a tutte le regole dell’improvvisazione di cui Alessandra ci aveva edotti: affidandomi soltanto alla mia indole, mi inventai un dialogo serratissimo a due voci di una coppia molto borghese - lei querula e petulante Ludmilla, lui snervato e focoso Astolfo - che litiga senza possibilità di intesa sulla scelta di come trascorrere le vacanze estive per giungere infine ad un unico accordo possibile: il divorzio. Attenendomi alle indicazioni ricevute, scelsi come sottotitolo ‘Sempre insieme con tanto amore’. Non mi dilungo qui in un racconto che potrà magari trovare altro spazio più consono, ma vorrei ricordare soltanto che fu tutto merito di Nadia se - invece di offrirmi al ludibrio della folla e di Alessandra con il mio penoso ‘Viaggio sulla luna’- riscossi un’ovazione parimenti inattesa da me e da tutti, che mi valse al secondo anno un posticino nel gotha dei più promettenti talenti della Scuola! Alla fine di quella serata, Nadia mi prese da parte e mi disse: “Sei un mostro!”, ma non riuscii a capire se voleva essere un complimento oppure un velato rimprovero per il timore di essere stata ingannata… Molti anni dopo - quando già da tempo si era trasferita in Germania dove ha stabilito la sua vita e in un tempo successivo alle registrazioni di queste fiabe - venne a trovarci un giorno a Russi per assistere a una prova di “Antigone”, essendo rimasta sempre in stretto contatto con Maurizio Cardillo, nostro compagno di corso nella stessa Scuola che adesso lavorava con noi. Era anche l’occasione per rivederci e fu un grande piacere per noi accoglierla in teatro, pur in un momento così delicato com’è quello delle prove in corso. Acquattata in un palchetto al buio, silenziosa, con gli occhioni lucidi e i capelli scuri velati dall’argento dell’età, la sua presenza discreta era leggera come una carezza amica e un soffice conforto. Andò via prima che la prova fosse terminata per prendere l’ultimo treno e ci scrisse un messaggio per dirci quanto le fosse piaciuto il lavoro, come si fosse emozionata nel rivederci insieme in scena e proponendosi di ritornare appena possibile. Ora è di nuovo con noi, in queste pagine, con le fiabe dell’audiolibro, come la compagna di scuola di allora. (Marco Sgrosso) I commenti sono chiusi.
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