CINEMA TEATRO ITALIA
racconti di esperienze d'arte dal pianeta Italia
a cura di Elena Bucci
di Valerio Pietrovita Camera da letto, Napoli. Da diversi giorni – sono ormai passate quasi due settimane dalla famosa prima riapertura – mi ritrovo davanti allo schermo del computer con l’intenzione di scrivere. Mi ci avvicino con la volontà di continuare questo strambo diario, riportare annotazioni, pagine scritte a penna, racconti su questi giorni trascorsi con un piede dentro e un piede fuori di casa. Però ogni volta rimando. Mi domando il perché. Sono certo che non è una questione di pigrizia. Credo che il tempo stia tornando a scorrere in fretta, forse è solo una mia strana esigenza quella di andarci contro. Allora decido di rallentare, e mi prendo altro tempo. Ci sarebbero tante cose da scrivere, le prime lunghissime passeggiate in giro per la città, il dolore ai piedi per la disabitudine a mettere in fila così tanti passi, o anche le più o meno divertenti disavventure domestiche, come la rottura della lavatrice con annesso allagamento della cucina. Un evento piuttosto eccitante nello scorrere monotono di giornate sempre uguali. Ma anche l’incredulità provata nel rivedere un amico dopo settimane e l’imbarazzo di non sapere in fondo che dirsi perché ben poco c’era da raccontarsi. La gioia di mangiare una pizza dopo quasi tre mesi, o la lunga discussioni con mia madre che senza preavviso decide di venirmi a trovare e nel farlo prende un pullman pieno di gente. O ancora, tutti i discorsi che si stanno facendo sul teatro, i suoi lavoratori, la rivolta in atto, il significato della parola arte e quello della parola cultura. O le centinaia di videochiamate e dirette che si fanno sempre più fitte e frequenti, mentre mi domando se sia poi così assurdo il mio desiderio di incontrare una persona per caso, per qualche astrale coincidenza, senza averlo fissato prima su un calendario. Ci sarebbero tante cose da poter raccontare. Ho però una strano rigetto in questo momento. Come se ora non fosse più il tempo adatto. Mentre fino a qualche settimana fa, forse per sentirmi meno solo e isolato dal mondo, avevo voglia di annotare e scrivere delle voci provenienti da un tempo sospeso, adesso molte di quelle voci si fanno confuse, mi appaiono banali, piatte. Preferisco il silenzio. A quanto pare a seguito di questi mesi, che mi sembrano anni, nulla è cambiato – a parte le norme da seguire e le espressioni della gente, a tratti più enigmatiche e sconsolate, ma forse solo perché nascoste da un velo. La verità è che sono deluso. Deluso da me, dal pensiero di quanto tutto sarebbe potuto diventare altro, diverso. Mi sento un ipocrita. Da questi due mesi e poco più mi aspettavo chissà quali grandi cambiamenti, mentre al contempo volevo anche che tornasse tutto come era prima. Una profonda contraddizione di termini, e mi domando se non sia stato solo un modo di mettere in luce crepe già preesistenti. Sono io a dover cambiare qualcosa nel piccolo spazio che mi circonda. Le grandi trasformazioni richiedono tempo ed energie, sperare che succeda tutto subito, per mano divina, è solo il desiderio di chi non vuole fare alcuno sforzo. Mi sono già abbondantemente abituato a vedere le facce dei passanti celate e nascoste, in mascherine che solo fino a poche settimane fa odiavo; anche io stesso ora non provo più alcun fastidio ad indossare un bavaglio. Non ci penso nemmeno più. Mi sono anche già abituato alle restrizioni, e ancora più in fretta alla nuova “libertà” di uscita. La bolla dell’isolamento è come scoppiata, quasi che non ci sia mai stata. Inizio a dubitare di me. Mi chiedo perché riesco ad abituarmi così facilmente a qualsiasi cosa! Sono insensibile? Davvero due mesi e mezzo di mondo alla rovescia non mi hanno fatto né caldo né freddo? Si parla delle scelte politiche, reagire con una lotta allo stravolgimento economico e sociale che c’è e ci sarà. Non sento nessuno parlare di come mai non si abbia minimamente bisogno di una lotta da un punto di vista emotivo. Cosa vuol dire empatizzare? Ne sono capace? Ho paura della mia intima, abissale indifferenza. I pensieri corrono svelti. Giustificarsi può essere solo un modo per non darsi colpe, e incolparsi solo un modo per giustificarsi. Ma non voglio essere negativo. Sono appena tornato da Procida. Niente di illegale, sono stato lì un paio giorni per aiutare un amico in dei lavori di ristrutturazione. Questo salto in una vita parallela mi ha fatto bene. Un passaggio netto dal tempo della ripartenza a quello di un’isola semi deserta. Ho ritrovato la quiete delle scorse settimane. Un tempo sospeso fatto di lunghi silenzi, attese, echi di voci lontane e visi mai visti. Un luogo fuori dal mondo, che a parte i mesi estivi vive tutto l’anno in una sorta di eterno piccolo isolamento. Qui uomini e donne conservano ancora qualcosa di selvatico. Gli abitanti vogliono restare isolati, non amano uniformarsi, detestano la mondanità. Non vivono la segregazione al pari di un’emarginazione, ma anzi, la proteggono, ne fanno un vanto. Gli orizzonti si allargano. Il cielo prende la rincorsa, si tuffa. Si schianta sugli scogli il mare, ora dopo ora. In eterno. I gabbiani volano in alto, il vento li tiene su, come aquiloni. I pescatori continuano ad intrecciare le reti. Vedo oltre il mio naso. Non ci sono muri a impedirmi la vista. Cos’è la curiosità? Sognare ciò che si nasconde dietro le nuvole? Aprire lo sguardo è un buon modo di scavalcare i confini. Il primo passo. Avere timore dell’isolamento, essere non conformi a certe dinamiche, a certi canoni. Far parte di una piccola minoranza ristretta, una nicchia, non è poi così male. Entrare in contatto con un mondo presente, ma altro. Un altrove. Cambiare piano, punto di vista. Forse l’utopia non sta tanto nel creare scenari possibili da poter edificare, quanto nell’immaginarne di irrealizzabili. Adesso ho più voglia di ripartire da qui. I commenti sono chiusi.
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