CINEMA TEATRO ITALIA
racconti di esperienze d'arte dal pianeta Italia
a cura di Elena Bucci
di Marco Sgrosso “Ma che cos’è un uomo, se non un ricordo?” (Jòn Kalman Stefànsson) Un giorno si sono chiuse le porte. E non ce ne siamo quasi accorti, non eravamo pronti. A un certo punto ha soffiato un vento maligno, subdolo, sottile. Abbiamo avvertito un brivido sul collo, sgradevole, per qualcuno forse più pungente, ad altri in principio non ha procurato neppure un lieve sussulto. Ma poi le porte si sono chiuse per tutti, all’improvviso, una dopo l’altra, quasi senza sbattere. E ci siamo ritrovati dentro. Murati, sepolti, protetti, accucciati, prigionieri del dubbio, dell’incredulità, della rabbia, della paura. E poi della pazienza. Il tempo noto si è fermato. Prima ha soltanto rallentato il suo corso, poi è franato rovinosamente nel vuoto pneumatico delle dimore chiuse. Chi è dentro è dentro e chi è fuori è fuori. Non si esce più, non si parte, non si arriva, non si viene e non si va. L’aria - questo dono preziosissimo e tanto sottovalutato che diamo sempre per scontato con l’arroganza della nostra vita distratta, impegnata, oberata, affannata, convulsa – l’aria va conquistata, centellinata, giustificata, autocertificata. È consentito a tutti assorbirla a larghe boccate per fare la spesa o per “gravi necessità”, a chi sì e a chi no per andare a lavorare (dipende da quanto conta o quanto vale questo lavorare), a chi piscia a quattro zampe sì, ma a chi la può fare restando dritto o seduto su due gambe sole no. E quel tempo ‘interno’, caldo, rilassante e casalingo, che per molti prima era un’ambita conquista e per altri già una prigionia, è diventato un vuoto senza confini, un lago nella nebbia, di cui, con differenti misure di inquietudine, percepiamo il peso tangibile e il placido silenzio, rotto dal canto degli uccelli che si incide più nitido che mai sulla pelle di chi è isolato fuori città, e dal soffio di un’angoscia sottesa o dal grido delle sirene delle ambulanze che strappa i nervi a chi vive la sua clausura nello scenario spettrale delle città svuotate. Che cosa fare di tutto questo tempo, di tutto questo vuoto? Come colmare il buco nero della vita che di colpo s‘immobilizza a porte chiuse? Rimettersi in moto anche da rinchiusi è auspicabile, per molti è comunque necessario, e certamente è un dolce conforto per tutti pensare che è possibile. Ci sono tante cose da fare anche in casa, piccole incombenze rimaste indietro da troppo tempo, rimettere in ordine lo sgabuzzino o la libreria, spolverare vecchi ninnoli mummificati, trascorrere più tempo in famiglia per chi ce l’ha, giocando a carte o preparando una torta, insufflarsi di Santa Maria Tivù che ci assiste, ci consola e ci terrorizza, ci esorta, ci conforta e ci consiglia, oppure ci si può impegnare in flessioni e stretching sul tappeto del soggiorno, mantenere tonica la muscolatura manipolando bottiglie di acqua Panna, e poi finalmente si può dormire. E mangiare. Mangiare e dormire, mangiare, mangiare, dormire, dormire, mangiare… Ma soprattutto c’è il nuovo Verbo dell’era moderna che in qualche modo ci tranquillizza tutti: online! Siamo creature del duemila, il ventunesimo secolo se la ride del secolo passato: noi siamo online! Sappiamo tutto lo stesso, “stiamo sul pezzo”, ci connettiamo, ci scriviamo, ci video-telefoniamo, chattiamo, pubblichiamo, tagghiamo, whatsappiamo, moltiplichiamo all’infinito l’invio di video e vignette, lavoriamo e studiamo da casa comodamente sprofondati nella meraviglia dell’universo virtuale, colmiamo il baratro dell’assenza infischiandocene del tatto, dell’olfatto e della carezza di uno sguardo. Trapaniamo i muri chiusi della clausura e ci proiettiamo nell’etere infettato: protetti dal contagio grazie alla nostra assenza fisica, aggiriamo la minaccia del nemico. E cerchiamo di onorare, per com’è possibile, la nostra vita: questo dono meraviglioso cui spesso prestiamo così poco pensiero e tanto scarsa attenzione. La vita vera, dico, quella della libertà, della fuga, dell’inciampo. Divisa tra dentro e fuori, tra luce e buio, caldo e freddo, gioia e disperazione. La vita, punto. Quando tutto sarà passato, ricomincerà. Si spera. Ma non sarà la stessa vita, forse. Per molti non sarà uguale a quella di prima. Qualcuno dovrà leccarsi ferite più profonde e qualcuno ne uscirà in trionfo, come sempre accade quando una disgrazia flagella il mondo. E per tanti, insopportabilmente troppi, non ricomincerà affatto. Non ci saranno più. Quel vento maligno che ha soffiato all’improvviso li avrà portati via con sé. Male. Soli, come Antigone. Senza lacrime, senza uno sguardo, senza rito, senza compianto. Caricati in silenzio sull’ultimo carro e portati via, a volte persino lontano dal proprio cuore. Se è vero, come profondamente credo, che quando si va via tuttavia si resta, lievemente questo pensiero mi consola e allevia la sconfinata malinconia di queste visioni. E allora questo greve silenzio che tutt’a un tratto si è impossessato del mondo può aiutarci a rivolgere lo sguardo dentro, per cercare di dare un senso al conflitto della nostra esistenza: essere perché? per chi? per quanto tempo? La memoria è preziosa come la vita. E ricordare riporta in vita. Ricordare il calore, il sorriso, l’abbraccio, l’allegria. “Un sorriso può lacerare le tenebre, illuminare il mondo”. Ricordare non per piangere, ma per preservare. Ricordare e custodire con cura dentro al cuore per dargli luce e aria. Il tempo ingiallisce le fotografie e ne deturpa la grana, sbiadisce i ricordi e confonde i dettagli, ma il sorriso di chi ha vissuto ci entra nel sangue, ci accarezza le vene e ci aiuta a non dimenticare la vita vera, quella della libertà, della fuga, dell’inciampo. Divisa tra dentro e fuori, tra luce e buio, caldo e freddo, gioia e disperazione. La vita, punto. Ma ne comprendiamo, ora, il valore, di quella vita? I commenti sono chiusi.
|
Gli intenti di Cinema Teatro Italia...
Tutti
|